La strage degli Innocenti e il conformismo del dolore virtuale

Pubblicato il 7/01/2016

Domenico Ghirlandaio, affresco, 1486-90, Santa Maria Novella, Firenze


Nei giorni subito dopo l'attentato a Charlie Hebdo, anch'io ho postato su Facebook il famoso slogan  "Je Suis  Charlie"
L'ho fatto perché lo sentivo, sentivo di essere in qualche modo stata colpita anch'io nella mia libertà d'espressione, patrimonio della cultura in cui vivo.
Nei mesi successivi purtroppo, nuovi attentati hanno insanguinato non solo l'Europa, ma anche altri paesi e la "rete" si è di volta in volta indignata, tramite una catena di immagini simbolo, con cui sembrava doveroso vestire il proprio profilo, per dimostrare di far parte della comunità dei bravi e buoni.

In alcuni casi, l'indignazione è sembrata più blanda rispetto a quella dimostrata, ad esempio, per Parigi o per Bruxelles: ed ecco levarsi altre grida indignate, a stigmatizzare questa presunta differente valutazione di morti.
Ora, dopo l'ennesima, tremenda strage di Istanbul, tutto si ripete, come un copione troppe volte recitato, un rituale conformista 2.0. 
E, per quanto mi riguarda, me ne chiamo fuori.

Diciamoci la verità: è nella natura umana che, quando la tragedia colpisce chi ci è vicino (in senso fisico o figurato) ci si senta più toccati.
Ogni giorno mi sento colpita dalle notizie che arrivano da ogni parte del mondo; però, l'intensità emotiva che provo è diversa, a seconda se si tratti di una carneficina a Bruxelles, dove sono stata più volte e ho degli amici, piuttosto che nel Centro Africa, dove non ho mai messo piede e non conosco nessuno.

Non è una questione di distanza geografica: se succedesse qualcosa in Mongolia, o in Madagascar, ne sarei scossa, perchè sono paesi che ho visitato e di cui ho conosciuto la popolazione, pur se non posso dire di avere degli amici laggiù.
Non posso farci nulla, non sono Teresa di Calcutta, nè il Buddha: mi indigno ugualmente, ma mi emoziono in modo diverso e negarlo sarebbe ipocrita.

Ciò detto: quale persona sana di mente e dotata di buon senso e compassione, potrebbe mai pensare che ci sono morti di serie A e altri di serie B?
Nessuno. E allora, perché così tanti sentono il bisogno spasmodico di far sapere a tutti i loro "contatti" e anche agli altri, che fanno parte di coloro che provano il giusto e corretto dolore, sempre e comunque?

Per dare un segnale di coesione ai terroristi, direte. Io penso invece che questi ultimi si sentano gratificati, vedendo le nostre manifestazioni di sdegno e dolore, che siano "social" o meno.
Anzi, è proprio quel che si prefiggono, con le loro azioni: far soffrire quelli che considerano nemici.

Forse, la vera fermezza sarebbe dimostrare meno platealità e più pudore (parola di cui si è perso il significato). E, forse, sarebbe più utile ricavare da questi fatti un insegnamento su come dovremmo impegnarci a cambiare noi stessi in profondità, senza aspettare che sia il mondo fuori a cambiare.
Quanti si affrettano a pubblicare il "Je Suis..." di turno e poi, fuori dalla pagina del social, tirano dritto se vedono una persona per terra, maltrattano o sfruttano i propri dipendenti o danno arbitrariamente del "tu" all'extracomunitario che incontrano?

Per quanto mi riguarda, non credo che pubblicare post a catena con un "je Suis..." qualsiasi, dia automaticamente una patente di virtù.
Ripeto: do per scontato che un essere "umano", nel senso culturale della parola, provi orrore di fronte a queste cose, dovunque accadano.
Saranno solo i mentecatti a gioire, perché stavolta è toccato a dei musulmani e così via. C'e bisogno di proclamarlo? O abbiamo un po' di coda di paglia?

Rivendico il diritto a vivere il mio dolore e la mia indignazione con pudore, senza doverlo sciorinare in una piazza, seppur virtuale. 
Non giudicherò nessuno duro di cuore perché non ha messo nel suo profilo la candela, il tricolore o quant'altro, a meno che non manifesti apertamente disprezzo o discriminazione.
Per la stessa ragione, non giudicherò chi decide di continuare a far parte di queste catene di dolore virtuale.

Ho solo voluto esprimere quello che sento io.

Questo articolo è stato scritto da Wanda Benati per Viaggi, Luoghi e Profumi. La riproduzione, totale o  parziale, è vietata e l'originale si trova solo su Viaggi, Luoghi e Profumi





2 commenti

  1. Sono d'accordo con te perché se una persona soffre può farlo per conto suo senza renderlo pubblico...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Alessia, molti sentono invece il bisogno di manifestare tutto sui social media: fortunatamente, ognuno può agire secondo coscienza! Grazie del tuo contributo

      Elimina